Our Families’ Wartime Stories - Storie di guerra delle nostre famiglie
MAURICE MUNIER |
Mio nonno paterno, Elio Munier, è un uomo riservato, sempre sulle sue. Nonostante ciò, quando gli chiesi per la prima volta di parlare dell’esperienza di suo padre, mio bisnonno, durante la Seconda Guerra Mondiale, mi parve subito contento di potermi raccontare quel poco che sapeva. Suo padre, Maurice Munier, il cui nome sotto il regime fascista, fu tradotto all’anagrafe in Maurizio, era nato nel 1918 a Charvensod, in Valle D'Aosta; nel 1939 era impegnato nel servizio di leva militare, quindi con l'entrata in guerra dell'Italia il 10 giugno 1940, non venne congedato e fu inviato a combattere sul fronte albanese. Un ricordo che deve essergli rimasto particolarmente impresso riguardava il momento del cambio tra i battaglioni, quando oltre la trincea si notavano le cataste di cadaveri. Suo padre gli raccontò anche di quando lui e altri due soldati, incaricati di portare dei messaggi al fronte, giunti a metà strada, si trovarono attaccati dal fuoco nemico; si nascosero in alcuni cunicoli sotterranei, e infine riuscirono a riprendere il cammino. Inoltre, Maurice fu catturato dai soldati del maresciallo Tito e tenuto prigioniero per quattro anni, tra il ‘43 e il ‘47 prima in Albania e poi in Grecia. All’epoca gli italiani venivano spesso fatti prigionieri insieme ai soldati tedeschi, che però venivano subito uccisi dai comunisti jugoslavi; Nonno racconta di un episodio in cui un giovane soldato tedesco, che non avrà avuto più di 18 anni, tentò di nascondersi tra i prigionieri italiani, ma una volta scoperto dai soldati titini fu ucciso sommariamente senza pietà. Agli italiani venivano imposti vari lavori, così durante la prigionia il mio bisnonno si ritrovò a fare il pastore di oche, senza cibo se non pane, patate e cipolle; Nonno racconta spesso che una volta tornato dalla guerra suo padre non riusciva ad alimentarsi con altro che quei cibi. Nel 1947 Maurice riuscì a tornare in Italia insieme ad un altro suo compaesano grazie all’aiuto di Palmiro Togliatti, che pagò un riscatto alla Jugoslavia per far tornare i soldati italiani rimasti prigionieri. Questo è quanto mio nonno ha deciso di raccontarmi su suo padre, la storia di un uomo, che come tanti altri in quell’epoca, fu strappato alla famiglia per anni, ma che fortunatamente riuscì a tornare in patria e in seno alla sua famiglia. Coralie MUNIER |
RICORDI DEL CIELO | ||||||
I miei nonni non hanno tanti ricordi della guerra, data la loro tenera età quando si è svolta. Se i miei nonni paterni non ricordano nulla, i miei nonni materni, invece, qualche ricordo lo posseggono ed è per questo che racconterò le loro storie. Il padre di mio nonno materno Valerio era stato generale dell'aeronautica militare durante la Prima Guerra Mondiale e il padre di mia nonna materna Loredana aveva combattuto per le truppe austriache sempre durante la Grande Guerra, mentre nessuno di loro prese parte alla Seconda (riguardo il mio bisnonno materno probabilmente fu esonerato in quanto essendo vedovo dovette occuparsi delle sue quattro figlie). Tra i pochi ricordi di mia nonna Loredana c’è sicuramente quello riguardante il suo soggiorno a Firenze, più precisamente appena fuori dalla città quando questa fu bombardata. Durante la guerra, mia nonna, le sue tre sorelle e suo padre vissero in una villa sopra Firenze (dato che Roma, la loro città natale, era poco sicura) e proprio da lassú era possibile vedere i bombardamenti che venivano effettuati su Firenze di notte: “Stavamo tutti e cinque sul letto matrimoniale nel buio pesto dovuto all’oscuramemto e nostro padre ci raccontava delle storie, oppure rimanevamo semplicemente tutti immobili in silenzio. La notte, sempre per passare il tempo, ci capitava anche di salire sulla torre della villa per vedere ancora meglio la città e fare a gara a chi contava più bombe. Essendo la più piccolina, non avevo capito che cosa stesse accadendo e quindi per me quello era uno spettacolo affascinante.” L’unico ricordo che mio nonno possiede riguarda invece i suoi frequenti incontri con i soldati tedeschi in campagna, i quali gli regalavano sempre delle caramelle per domandargli poi se sapesse dove comprare del latte nelle vicinanze; la loro domanda era finalizzata a scoprire i posti dove potevano andare a punire la gente che vendeva il latte, pratica da loro considerata illegale; questo fa comprendere quanto la loro presenza fosse fastidiosa anche per dei semplici contadini. Nonostante mio nonno non abbia alcun altro ricordo diretto, ha avuto la fortuna di avere come padre il generale (nonché uno dei fondatori nel 1923) dell'aeronautica militare italiana, Ettore Faccenda, il quale ebbe l’occasione di fare due incontri molto importanti. Il primo di questi riguarda la visita che Benito Mussolini fece all'aeroporto di Campoformido, e in questa occasione il mio bisnonno gli fece fare il suo primo volo su un velivolo bielica. Il secondo incontro rilevante riguarda invece la prima visita di Adolf Hitler a Roma, dove in suo onore venne chiesto allo stormo di cui il mio bisnonno faceva parte, di volare in formazione cosí da riprodurre una croce uncinata, esibizione che ebbe un gran successo. Queste sono alcune delle storie che ho avuto la fortuna di ascoltare quando ero più piccola, comprendendone solo ora il valore di testimonianza storica autentica; ringrazio i miei nonni per il tempo che mi hanno dedicato e per il loro contributo a mantenere viva la memoria. Valeria PAPAGNI
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JEANNETTE E ARTURO | ||||
Quando la Seconda Guerra Mondiale scoppiò, mia nonna paterna era ancora molto piccola: aveva solamente sette anni. Si chiama Jeannette ed è nata in un piccolo paese della provincia denominata Valenciennes, nel nord della Francia al confine col Belgio. Questo terribile conflitto segnò profondamente lei e la sua famiglia, infatti oggi, alla veneranda età di 91 anni, Nonna ricorda ancora quel tragico periodo con molta sofferenza e ne parla con difficoltà. Il ricordo più forte che ha è di sua mamma che, ogniqualvolta uscivano di casa, le raccomandava di non guardarsi intorno per non notare i cadaveri disseminati per strada. Inoltre, la sua infanzia è stata accompagnata dal sottofondo del rumore degli elicotteri dell’esercito e degli allarmi antiaerei che, suonando all’improvviso, indicavano la necessità di andare immediatamente a rifugiarsi nei bunker per cercare di scampare alla furia del bombardamento. In particolare, mia nonna ricorda che un giorno che si temeva un attacco imminente, la città fu evacuata e lei ed altri abitanti al rientro trovarono le loro abitazioni devastate. Ciononostante, un aspetto che mia nonna ha tenuto a rimarcare più volte è che non tutti i soldati nemici maltrattavano la popolazione locale: infatti, molti militari tedeschi disapprovavano fortemente la guerra e aiutavano le famiglie francesi, tra cui quella di mia nonna, offrendo loro le poche razioni di cibo che ricevevano e regalando ai bambini del cioccolato. Infine, l’evento più traumatico che Nonna ricorda è il ritorno di suo zio dai campi di concentramento: quest’uomo era talmente scioccato da sembrare quasi impassibile; corpo e mente erano stati messi a dura prova, fatto sta che fu necessario alimentarlo tramite una cannuccia per far riabituare il suo corpo al cibo di cui era stato privato per troppo tempo. Mio nonno paterno invece, visse la tragedia della Seconda Guerra Mondiale all’età di 14 anni. Si chiamava Arturo ed era nato ad Oveillan, una frazione di Sarre in Valle d’Aosta. Nonno era una persona estremamente buona e pacifica, infatti ripudiava ogni forma di violenza e si rifiutò di combattere, non volendo uccidere nessuno. Per questo motivo, quando fu arruolato nell’esercito scappò dalla Valle d’Aosta e dai suoi cari e trovò rifugio in Emilia Romagna. Qui, fu ospitato da una famiglia che lo nascose in una buca vicino alla loro abitazione: Nonno mangiò e dormì in queste tristi condizioni per tutta la durata della guerra senza mai essere scoperto. Infatti, se i funzionari del governo fascista lo avessero trovato, lo avrebbero arrestato con l’accusa di essere un "disertore" e sarebbe stato condannato a morte e con lui la famiglia che lo aveva nascosto. Al termine del conflitto riuscì a tornare in Valle d’Aosta e ricongiungersi con i suoi cari, dopo aver vissuto anni difficili per sostenere la personale libertà di scelta di ripudiare la guerra. Grazie Nonna, grazie Nonno, porterò sempre con me il vostro esempio di forza e di coraggio.
Christine PELLU |
DI NASCOSTO |
Mia nonna Giuliana mi raccontava che da piccola, durante la Seconda Guerra Mondiale, ebbe purtroppo molto spesso a che fare con i soldati tedeschi. Giuliana e la sua famiglia vivevano nella campagna genovese e suo padre, un combattente armato senza regole, si uní alla lotta partigiana, e combattè contro un esercito ufficiale per il suo territorio. I soldati tedeschi, intendendo scovare e catturare i partigiani, li ricercavano andando di casa in casa, e il mio bisnonno, che si era creato un rifugio ricavato da un buco sotto il pavimento, era solito nascondersi durante la durata della perquisizione, e uscire solo dopo aver sentito i mezzi militari nemici allontanarsi, trattenendo il respiro per non farsi scoprire. Nessuno in famiglia capiva il tedesco, ciononostante, ad ogni perquisizione dei soldati tedeschi, la mia bisnonna cercava di tenerli occupati affinché non cercassero più a fondo, preparando loro il caffè e offrendo loro qualcosa da mangiare, mentre mia nonna e le sorelle cercavano di essere più gentili possibile per evitare che si insospettissero; disgraziatamente, questo loro atteggiamento fu frainteso dai soldati che le stuprarono. Nel quartiere erano tutti terrorizzati dall'esercito tedesco, anche perché molti padri e figli furono allontanati dalle famiglie e uccisi; fortunatamente il mio bisnonno non fu mai scoperto, grazie alla sua abilità nel nascondersi ogni volta in un posto diverso e al coraggio delle donne della sua famiglia. Sara PEZZOLI |
CON GLI OCCHI DI MARIA |
Ho avuto l’onore di intervistare un’anziana amica di famiglia, Maria Paolini, che purtroppo ha vissuto gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Quando tutto iniziò Maria aveva dieci anni e viveva in Abruzzo, nel paesino di Castelvecchio Subequo, in provincia dell'Aquila. In casa con lei c’erano solamente sua mamma e sua nonna, poiché suo papà fu presto chiamato alle armi. Maria non ricorda molti dettagli della sua vita a quel tempo, tuttavia ricorda perfettamente com’era andare a scuola; per ordine del regime fascista gli alunni dovevano indossare la divisa; quella femminile era composta da una camicetta bianca e una gonnellina nera, e le studentesse erano denominate “Piccole italiane”; la divisa maschile consisteva di camicia nera decorata dall’iniziale “M” di Mussolini e calzoncini grigio-verde e gli allievi erano denominati “Balilla”. Le giornate a scuola erano molto monotone - dice Maria; come prima cosa si cantava l’inno dedicato a Mussolini, inno che la signora ha gentilmente cantato per me, ricordandolo a memoria. Maria e i suoi fratelli pronti per andare a scuola. La scuola, inizialmente organizzata in classi maschili e femminili, durante la guerra, per ristrettezze organizzative, era ormai diventata mista; inoltre, poiché non era sicuro viaggiare, non vi era sufficiente disponibilità di maestri, così il più delle volte un solo docente era impiegato per l'insegnamento di tutte le materie e Maria ebbe un parroco come maestro. Quando tornava da scuola, Maria aiutava la mamma, ad esempio, per andare a comprare del cibo; ella ricorda come tutti abbiano patito la fame in quel periodo; la sua famiglia, come le altre, aveva ricevuto la cosiddetta tessera annonaria che era necessaria per l’acquisto di beni di prima necessità come pane, zucchero e sale la cui disponibilità era scarsa e quindi razionata. Alcune giornate sembravano trascorrere normalmente, e le si poteva passare in completa spensieratezza, ma non si doveva assolutamente dimenticare il limite del coprifuoco, la sera dopo le 20 non si doveva assolutamente uscire, violare questo divieto avrebbe comportato l’arresto immediato. Maria ricorda bene anche il momento in cui vide volare sopra la sua testa centinaia di aerei, che andando e venendo, bombardavano acquedotti, ponti e ferrovie del suo amato paese e dintorni. Per anni, anche dopo la fine della guerra, il suo paese, come tanti altri, patì le difficoltà della ricostruzione di tutto ciò che il conflitto aveva distrutto o portato con sé. Ci vollero decenni per tornare alla normalità, perché la guerra finisce, ma i danni causati restano. Nancy RAFFA |
UN’ODISSEA CHE PARLA FRANCESE |
Sono cresciuta a latte e the e racconti della mia bisnonna Marthe. Passavo i pomeriggi seduta accanto a lei sul divano ad ascoltare i suoi ricordi più felici, tra i quali paradossalmente c’erano anche quelli riguardanti gli anni della guerra. La mia bisnonna nacque nel 1921 e trascorse quasi tutti gli anni della Seconda Guerra Mondiale nel piccolo villaggio vicino Marsiglia, in Francia, dove lei e la sua famiglia abitavano. Questo non era solo un territorio di confine con l'Italia, ma anche un luogo in cui le due culture italiana e francese si fondevano. Marthe e sua sorella avevano poco più di vent’anni quando scoppiò la guerra e a Marsiglia arrivarono i battaglioni dei soldati italiani; tra questi c’era quello del mio bisnonno, un ragazzo valdostano di nome Laurent. Il villaggio della mia bisnonna era troppo piccolo per essere considerato un luogo di importanza strategica da occupare, così per fortuna la popolazione locale non avvertì mai veramente la minaccia della guerra, anzi, conduceva la propria vita cogliendo ogni occasione per festeggiare. Fu proprio in una di queste circostanze che Marthe conobbe il futuro marito Laurent e se ne innamorò. Passarono molto tempo insieme e quando lui se ne andò, le disse che viveva in Italia ad Aosta e le diede il suo indirizzo. Era ormai il 1944 e pochi mesi dopo questo coup de foudre Marthe scoprì di essere rimasta incinta, invió delle lettere al suo amato, ma non ricevette mai risposta. Così, appena zio Eddy nacque, decise di partire per andare a cercare il padre di suo figlio ad Aosta. Solo quando giunse in Italia scoprì che le sue lettere non avevano mai oltrepassato il confine. La mia bisnonna mi ha più volte raccontato di quel viaggio, rimarcando quanto fosse stato lungo e pericoloso. Giocò a suo favore avere il cognome piemontese, grazie al quale riuscì ad arrivare a destinazione senza grandi problemi. Ho sempre pensato che la sua storia somigliasse ad una favola, perché - mi raccontava - che quando finalmente rivide Laurent e gli disse che il bambino era suo figlio, si sposarono. Pochi anni dopo nel 1946 nacque mia nonna Josette, poi Zio François e infine Elisabetta, miei prozii. Grazie alle storie apprese dalla viva voce della mia bisnonna, mi piace pensare che la guerra non fu solo un periodo di stragi e sofferenza, ma ci furono anche persone più fortunate che riuscirono a vivere la loro adolescenza normalmente. Il mio bisnonno Laurent venne a mancare all'affetto dei suoi cari poco prima che io nascessi, mentre sua moglie Marthe lo raggiunse all'età di 93 anni, nel 2016; in quegli 11 anni dalla dipartita di suo marito le piaceva ricordare tutto della loro vita a due, litigate comprese. Claudia SORO |
L’ESPROPRIO |
I protagonisti di questa storia sono Valentina Pellissier e la sua famiglia (padre, madre e un fratello). Sua madre, Luisa Pellissier, era casalinga e suo padre, Adriano Proment, era agricoltore. Valentina nacque nel 1935 a Villeneuve in Valle d’Aosta, ma ben presto la sua famiglia si trasferì a Courmayeur in “Via dei bagni” per vivere in una casa più grande, che consisteva in una stalla e un fienile. La sua esperienza di guerra cominciò nel 1943 con l'occupazione tedesca. Valentina era una bambina di otto anni quando un giorno i soldati tedeschi decisero di espropriare la casa di famiglia. Avevano scelto proprio quella proprietà essendo dotata di spazi utili per custodire i cavalli in dotazione all’esercito tedesco. Il papà di Valentina cedette casa e terreno senza molte discussioni e si preoccupò di garantire un posto sicuro alla sua famiglia in un’altra casa che possedevano nella frazione di Courmayeur, denominata La Saxe. Una grande qualità di Adriano era la sua infinita generosità, e proprio per questo i tedeschi gli furono più volte riconoscenti ricompensandolo con dei pacchetti di sigarette. Vale la pena precisare che i soldati utilizzarono la casa dei Proment solamente per alloggiare i cavalli dormendo invece nel ristorante Excelsior, situato a pochi metri dalla casa di Valentina. Tuttavia, nei giorni seguenti l’esproprio, Valentina e suo padre dovettero trasportare tutto il fieno della stalla fino alla nuova abitazione. Questa operazione si rivelò particolarmente ardua per Valentina poiché, per raggiungere la casa, lei e il padre dovevano percorrere un sentiero parallelo ad un ruscello, e dovettero percorrerne vari tratti camminando nell’acqua per risultare meno esposti al fuoco dei proiettili. In altri tempi questa operazione si sarebbe potuta evitare, ma essendo le mucche la loro principale fonte di sostentamento, non potevano di certo rimanere a corto di fieno. L’aspetto interessante di questa storia, però, è che Valentina entrò in contatto con i soldati tedeschi instaurando con loro un legame di amicizia; lavorando al ristorante Excelsior, lei era incaricata di pelare le patate e una volta completata la sua mansione, i soldati la premiavano donandole dei biscottini. Un gesto del genere non cambiò di certo gli orrori della guerra, tuttavia, ricevere un regalo da parte dei soldati nemici non era cosa che capitava a tutti. Nel 1944, esattamente un anno dopo l’esproprio, Valentina poté ritornare nella sua casa di “Via dei bagni”, però solo in seguito ad una grande opera di ristrutturazione dell’immobile. Giorgia TEGAS |
CORAGGIO CIVILE |
Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale il mio bisnonno paterno fu arruolato e andò in Montenegro a combattere. Rientrato a Valtournenche, raccontava con commozione di come la popolazione locale si fosse distinta per la generosità e il coraggio durante quel periodo difficile. Una volta tornato, si impegnò a garantire il sostentamento della sua famiglia e anche della comunità. Possedeva un camioncino che utilizzava per recarsi in Piemonte, dove acquistava farina per panificare e confezionare altri beni primari, essenziali in quel periodo di magra. Tuttavia sembrava l'unico disposto a sacrificarsi per il bene comune, il solo a possedere il coraggio di affrontare quei viaggi per aiutare chi ne aveva bisogno. Un giorno, mentre si dirigeva verso il Piemonte, fu fermato da un posto di blocco dei partigiani. Costoro, convinti che fosse un fascista, gli puntarono un fucile alla nuca; in una situazione di tensione massima, dovette spiegare con urgenza che non era un fascista e cercare disperatamente di convincerli a lasciarlo passare incolume. Fortunatamente, i partigiani lo lasciarono passare, ma quell'esperienza, in cui rischiò la vita mentre cercava di portare aiuto ai suoi familiari e concittadini, lo segnò profondamente. La storia del mio bisnonno è un toccante esempio di come il coraggio e la dedizione verso gli altri abbiano giocato un ruolo cruciale durante i giorni bui della guerra. guerra. Martina TOUSCOZ |
TRA MARE E MONTI |
I miei nonni materni sono nati dopo la Seconda Guerra Mondiale e non hanno molti ricordi di quel periodo nel quale vivevano sulla riviera ligure, dove abitano tuttora. Hanno vissuto, però, gli anni del dopoguerra e mi hanno raccontato della crisi e delle ristrettezze di quegli anni, quando c’erano pochi soldi, poco cibo, lo stile di vita era semplice e volto all’obiettivo di riprendersi il prima possibile, tornare a sorridere e a sperare in un futuro migliore.
Il ramo paterno della mia famiglia, invece, è stato maggiormente coinvolto dal conflitto; mia nonna Carla è olandese e negli anni della guerra abitava ad Haarlem, vicino ad Amsterdam; ha ricordi molto vaghi, e non rammenta troppe restrizioni. Ha avuto qualche suo nonno o zio che è dovuto andare al fronte, ma nessun mio parente stretto. Fortunatamente non ha sofferto troppo nel dopoguerra e ha girato l’Europa per lavoro, traduceva testi per compagnie importanti con la macchina da scrivere; giunta in Italia ha conosciuto mio nonno Giorgio sulla riviera ligure e da quel giorno non si sono mai più lasciati. Il mio nonno paterno è tra i nonni quello che mi ha raccontato più storie. Era cresciuto in Piemonte, ma la sua famiglia si traferì quando lui era ancora giovane, nell’amata Cervinia, dopo che i suoi genitori ebbero trovato lì la loro “fortuna”; sua madre era solita ripetergli: “Giorgio, qui c’è fortuna e non ci muoviamo più”. Nonostante ciò, la nuova vita non fu tutta “rose e fiori”. Con l’avvento della guerra, infatti, arrivò anche la crisi e per un paio d’anni mio nonno dovette abitare in un rudere, condividendo la camera con suo cugino, dove - mi racconta spesso - che in pieno inverno era costretto a dormire vestito, foderando gli scarponi con la carta di giornale, viste le tre dita di ghiaccio che c’erano dietro la testata del letto. Ebbe un’adolescenza difficile, ma fortunatamente la guerra non gli causò altri danni. Tommaso ZAVATTARO |
ANNI ‘20 IN VALLE D’AOSTA |
La Valle d’Aosta, una piccola regione ai confini nord-occidentali dell’Italia, ha conosciuto una forma di fascismo particolare che si può definire “fascismo di confine”. Durante il ventennio fascista questa zona subì un poderoso e sistematico attacco contro la propria identità linguistica, storica e culturale, che ebbe come effetto, per esempio, nel fallimento delle sue due banche principali (tra cui la Banca Réan), nella massiccia emigrazione di molti valdostani in Francia e Svizzera e nell'imposizione di parlare solo la lingua italiana (quando la popolazione parlava soprattutto la lingua locale, che i valdostani chiamano “patois” o la lingua francese), e attuando il discutibile programma di italianizzare, non solo tutti i toponimi, ma anche i nomi e i cognomi delle famiglie valdostane, persino i più improbabili (ad esempio il cognome Perruquier fu italianizzato in “Perrucchione”, Champorcher divenne “Ciamporcero”; la località di Pontboset venne italianizzata in “Pianboseto”; Pré Saint Didier divenne “San Desiderio Terme”, per citarne solo alcuni). Nel 1925, sotto la guida di Emile Chanoux (notaio, politico ed intellettuale valdostano), fu fondata la società patriottica Jeune Vallée d'Aoste, che fece della tutela della lingua e dell'identità locale il principio necessario per la difesa della libertà intesa in senso lato. Prima di passare alla clandestinità, per sfuggire alla persecuzione della dittatura fascista, questa associazione raccolse alcune migliaia di firme di capifamiglia a sostegno di una petizione in difesa delle lingue autoctone, segno evidente dell'insofferenza della popolazione valdostana nei confronti degli abusi del regime. Nel 1943, Chanoux partecipó all’evento che passò alla storia col nome di “Riunione di Chivasso”, durante la quale fu redatta la "Carta di Chivasso", documento che, riaffermando i diritti delle minoranze etniche all'interno di un futuro Stato democratico, forní le linee guida per l'elaborazione degli Statuti Speciali delle Regioni Autonome, nella neonata Repubblica Italiana. L’impegno e il prestigio di Emile Chanoux furono un’ispirazione per tutta la popolazione valdostana nonché un punto di riferimento per il suo senso d'identità, che la dittatura fascista non riuscì a sradicare; fu per questo che, il 18 maggio 1944, con l’intento di soffocare le aspirazioni autonomiste, il regime fece arrestare Chanoux. Dopo una notte di interrogatorio e tortura Chanoux fu trovato morto la mattina seguente, impiccato alle sbarre della prigione, una circostanza di apparente suicidio - versione cui nessuno credette. L'influenza del periodo fascista in Valle d’Aosta lasciò segni evidenti, visibili oggi nei nomi di alcune città e vari comuni. Durante il regime fascista tutti i toponimi vennero italianizzati, così, ad esempio, Courmayeur fu rinominata “Cormaiore”, La Thuile fu ridenominata “Porta Littoria” e infine Breuil-Cervinia fu ribattezzata “Cervinia”. A gennaio 2023, a conclusione di un confronto tra le amministrazioni regionale e comunale e il tavolo tecnico della toponomastica, iniziato nel 2011 e conclusosi col parere favorevole del di allora sindaco, si deliberó per rinominare la meta turistica valdostana, attualmente conosciuta a livello internazionale, col nome di Breuil - Cervinia solo “Le Breuil”, eliminando così il nome “Cervinia”, retaggio dell’epoca fascista. Dal 30 novembre scorso (2023) la questione è salita agli onori delle cronache regionali e nazionali, a testimonianza del fatto che certe questioni storiche sono tutt’altro che concluse e toccano nervi scoperti ancora oggi. Ruslana ZELIONII |
UN’INFANZIA DI GUERRA |
Le storie di guerra vengono in genere rielaborate quando si è adulti, e quindi più consapevoli dei fatti accaduti, ma questo non è il caso del racconto di mio nonno materno Ovidio che nel 1940 era un bambino di tre anni. Nonno abitava in Valle d'Aosta, a Villeneuve con i genitori e tre fratelli. Data la sua tenera età, non poteva affatto capire cosa stava succedendo realmente in queli anni; trascorreva, infatti, le sue giornate andando a scuola e aiutando i genitori nel lavoro dei campi. Un giorno il padre, rientrato a casa da lavoro nella centrale di Chavonne, annunció di essere stato licenziato poiché non aveva accettato di firmare l’adesione al partito fascista. Seppur piccolo, immagino che in quel momento nella mente di mio nonno egli abbia in qualche modo percepito l’inizio di un cambiamento. Successivamente, Nonno mi ha raccontato che vennero organizzati dei posti di blocco in ingresso e in uscita da Villeneuve, presso i quali chiunque voleva entrare o passare per il paese, persino i bambini, veniva controllato; queste postazioni fungevano anche da punti di raccolta dei cadaveri di coloro i quali venivano arrestati e poi fucilati. Le sirene dell’allarme antiaereo suonavano a qualsiasi ora del giorno e della notte e quando ciò accadeva, tutti dovevano andare a rifugiarsi in un luogo sotterraneo, in genere una cantina nei pressi delle abitazioni, dove si doveva rimanere finché non veniva suonato un nuovo segnale ad indicare la fine del bombardamento; la permanenza nel rifugio a volte poteva durare anche alcune ore. La casa di mio nonno si trova ancora oggi di fronte al cimitero, dove, in quegli anni, in genere avvenivano le fucilazioni, per cui ogni giorno, mentre lui e la sua famiglia lavoravano nei campi, sentivano il frastuono degli spari del plotone di esecuzione contro il muro di cinta del cimitero. Oggi il cimitero di Villeneuve è composto da tre sezioni, negli anni ‘40 ce n’era solo una ad ospitare le tombe; al posto delle attuali due c’era un vasto prato dove era stata scavata una fossa comune, in cui venivano gettati i cadaveri raccolti varie ore dopo la morte. Un giorno, sapendo che un loro parente era tra coloro che sarebbero stati fucilati, la famiglia di mio nonno si soffermó a guardare il plotone di soldati che conduceva i condannati a morte; una volta arrivati davanti al muro del cimitero si sentirono alcuni spari, ma in quel momento i soldati, probabilmente accorgendosi di essere osservati, si voltarono in direzione della casa di mio nonno e iniziarono a sparare verso di loro; non penso che avessero il vero intento di colpirli, bensì solo di spaventarli e scoraggiarli dal prestare nuovamente attenzione. Nel 1943 ci fu la visita di Mussolini in Valle d’Aosta; a questo proposito Nonno ricorda solo vagamente la folla di persone scesa in strada ad aspettare l’arrivo del corteo con l’auto del Duce per applaudire al suo passaggio. Oltre agli aspetti tragici e cruenti della guerra, mio nonno ha anche dei ricordi positivi: si rammenta, ad esempio, che tutti i sabati i bambini venivano riuniti a Chavonne per giochi e attività di gruppo, in quella che doveva essere un’operazione di propaganda per instillare i valori del regime nei più piccoli. A guerra finita, il papà di mio nonno fu assunto di nuovo a lavorare alla Cogne ad Aosta, dove aveva lavorato anni prima, dato che i luoghi di lavoro in città erano meno controllati rispetto ai paesi, e quindi aveva potuto lavorare anche senza essersi mai iscritto al partito fascista. Dopo la guerra, Nonno Ovidio ha continuato la sua vita sposando mia nonna Alda e diventando padre di una figlia, mia mamma Daniela, ma penso che i ricordi della sua infanzia vissuta in tempo di guerra non lo lasceranno mai.
I gemelli Ovidio e Gastone Courthoud a Villeneuve Silvia ZERBINATI |
NONNO LEO - UN PITTORE IN GUERRA | |||
Valentina TENEDINI
I miei nonni Leopoldo ed Erminia in una foto del 1964 - sono stati sposati tutta la vita - riuscendo a festeggiare anche le nozze d’oro |